Le Iene condannate per violazione delle norme sul trattamento dei dati personali
La trasmissione televisiva Le Iene è stata condannata per aver mandato in onda un servizio del Trio Medusa senza il consenso esplicito del soggetto ripreso. Con ordinanza del 21 Giugno 2018, la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Roma, che aveva condannato RTI a risarcire ventimila euro in favore del protagonista.
Il fatto
Nel servizio mandato in onda dalla trasmissione Le Iene, il protagonista veniva avvicinato in discoteca da una ragazza complice della produzione televisiva. La ragazza lo invitava a seguirla in macchina, dove gli poneva domande sulla sua disponibilità ad avere rapporti sessuali senza l’uso del contraccettivo. Successivamente, il ragazzo si accorgeva di essere ripreso e scherzava apertamente con il Trio Medusa, senza manifestare alcuna opposizione alla messa in onda del video.
Da questo episodio, la produzione ha dedotto l’esistenza di un consenso implicito del soggetto ripreso ed ha mandato in onda il servizio senza preoccuparsi di ottenere un valido consenso scritto ed informato.
Dopo che Le Iene trasmisero il video, il ragazzo dichiarò di aver subito un danno alla sua relazione sentimentale e di essere stato oggetto di scherno da parte di superiori e colleghi di lavoro. Egli decise quindi di citare in giudizio la casa produttrice della trasmissione Le Iene, ottenendone la condanna sia in primo grado che in Corte d’Appello.
Cosa dice la legge
All’epoca in cui si sono svolti i fatti sopra narrati non era ancora in vigore il GDPR e neppure il Codice della Privacy del 2003. Il consenso per poter trattare i dati personali era però già richiesto dalla L. 675/96. L’art. 11 stabiliva: “il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell´interessato“. Il comma 3 precisava inoltre che: “il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente, in forma specifica e documentata per iscritto“.
La L. 675/96, così come il successivo Codice della Privacy (D.lgs. 196/03) potevano considerarsi “consenso-centriche”. Il consenso dell’interessato costituiva la regola generale per poter trattare i dati personali, mentre i casi in cui questo non era necessario rappresentavano le eccezioni.
Il GDPR (Reg. UE 2016/679) non considera più il consenso come la regola per poter trattare i dati personali. Il trattamento può essere legittimato da diverse basi giuridiche, fra cui la necessità per l’esecuzione del contratto o il legittimo interesse. Questo nuovo approccio teorico in pratica non cambia però molto. Infatti, le basi giuridiche previste dal GDPR come alternative al consenso erano per lo più previste dal nostro Codice Privacy come eccezioni alla regola generale del consenso.
I requisiti del consenso
Sia nel GDPR che nella normativa precedente, il consenso deve avere determinati requisiti per essere valido.
Innanzi tutto, il consenso deve essere informato e quindi preceduto da una idonea informativa sulla privacy.
Il consenso deve essere libero, e cioè deve essere espresso senza subire condizionamenti (ad esempio, si ritiene condizionato il consenso espresso dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro).
Deve essere specifico, ovvero relativo ad un trattamento ben individuato anche nella sua finalità.
Infine, il consenso deve essere inequivocabile e cioè deve consistere in una manifestazione della volontà chiara ed espressa.
Quando il consenso riguarda il trattamento di dati particolari o sensibili, le formalità richieste affinché possa considerarsi valido sono ancora maggiori. Il GDPR richiede infatti un consenso esplicito per una o più finalità specifiche (art. 9 Reg. UE 2016/679). L’art. 22 della L. 675/96 e l’art. 23 del D.Lgs. 196/03 richiedevano invece che il consenso fosse manifestato in forma scritta per autorizzare il trattamento di dati sensibili.
La difesa di RTI
Nel proprio ricorso in Cassazione, RTI ha proposto una serie motivi di impugnazione.
Secondo la ricorrente, la Corte avrebbe dovuto applicare l’art. 96 della legge sul diritto d’autore e non la normativa privacy. Infatti, in base a questo articolo, l’immagine di una persona può essere pubblicata con il suo consenso, il quale può essere manifestato anche con comportamenti concludenti, senza necessità della forma scritta.
RTI aggiungere che il consenso alla diffusione delle immagini era stato documentato da una videoregistrazione, il cui valore dovrebbe ritenersi equipollente alla forma scritta. Da essa emergeva la piena consapevolezza dell’interessato circa il fatto di essere stato ripreso e la volontà di non opporsi alla diffusione del video.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato i motivi di ricorso sollevati da RTI e confermato la condanna a risarcire l’interessato.
Con riferimento al primo dei suddetti motivi, la Corte ha precisato che una videoregistrazione non contiene soltanto l’immagine del soggetto interessato ma tutta una serie di dati personali: il suono della sua voce ed i pensieri espressi. Ben ha fatto dunque la Corte d’Appello ad applicare la normativa sulla privacy. Inoltre, le risposte relative all’uso di contraccettivi riguardavano la sfera sessuale dell’interessato e dovevano quindi considerarsi dati sensibili.
Con riferimento al secondo dei suddetti motivi, la Cassazione ha confermato la necessità in quel caso del consenso scritto. Per potersi considerare valido, il consenso doveva essere espresso e consapevole anche in merito ai limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione.
Conclusioni
Il consenso dell’interessato al trattamento dei suoi dati personali, quando richiesto, non si traduce in una mera formalità. Per essere valido deve avere determinati requisiti, sia oggi con il GDPR, che in passato sulla base della L. 675/96 e del D.Lgs. 196 /03. In particolare, il consenso deve essere informato, libero, specifico ed espresso in modo inequivocabile. Non sempre è richiesta la forma scritta del consenso ma in ogni caso esso deve sempre essere dimostrabile, in virtù del principio dell’accountability.
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